21 febbraio: Lingua Patria

LinguaPatriaCiascuno ha le sue madelaine e, anche se non sempre somigliano “allo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo”, lo stesso ti giocano dei tiri che definire mancini sembrerebbe una galanteria.
Dai mondi che ci portiamo dietro (che una volta abbiamo avuto l’illusione di esserci lasciati dietro) continuano ad affacciarsi quelle strane folgorazioni: le parole. Parole che racchiudono altri mondi, che li moltiplicano all’infinito, come nelle oscure gallerie di Borges; piene di specchi, di premonizioni, di sortilegi, di storie (piccole e grandi), accatastate da qualche parte nei ripostigli della memoria.
Il lessico famigliare composto e ricomposto attraverso le generazioni un una stirpe di migranti come la mia, continua ad accalappiarmi – all’improvviso, quando meno me lo aspetto – a tirarmi dentro in storie che non sono mie, ma forse sì. Perché se qualcosa ho imparato con gli anni è che nulla accadde per caso.
O forse è soltanto una di quelle frasi che da sempre ho sentito ripetere tra i muri di casa mia.
Dalle terre di Galicia e Andalucia i miei nonni portarono al sud del mondo una lingua che sembrava appena nata, tanto era splendente. Dovettero sciacquarla nelle acque fangose del Rìo de la Plata, per farla diventare parte di un paesaggio comune, parole nelle quali poter raccontare la propria storia senza essere guardati con diffidenza.
Poi ogni cosa ricominciò ad ingarbugliarsi. Ogni sillaba, ogni pausa, ogni punto e a capo. Quella genia miracolosa di nomi, rappresentazioni, nella quale avevo imparato a nominare il mondo che mi stava intorno prese a moltiplicarsi, non appena dovetti riattraversare l’oceano, non appena ricominciai a balbettare. Come facevo una volta, da bambino. Come facevano i barbari. Come continuiamo a fare noi, migranti, ogni volta che il mondo fa una giravolta e ci troviamo con l’esistenza sottosopra.
Il mio tempo perduto mi sta sempre intorno. Mi insegue. Non sono mai riuscito a seminarlo.
È, in ciascuno di quei suoni con i quali imparai a descriverlo, cercando di viverci dentro. Segni, suoni, grafie, frasi, vocaboli che fanno finta ogni tanto di nascondersi, per obbligarmi a capire che sono importanti.
E che tornano – erosi, sfigurati, allargati, alle volte irriconoscibili – non appena giro la testa, non appena capisco che di tutta quella strada appena percorsa resterebbe ben poco se non ci fossero loro, le parole, “quelle cagne dispettose”, come le chiama Julio Cortàzar, le colonne portati di una biografia dal passo incerto, mutevole, discontinua, sempre sulla punta della lingua.
Milton Fernàndez

Sabato 21 Febbraio - ore 15.00
Cernusco sul Naviglio – Biblioteca Comunale

Con
Sabatino Alfonso Annecchiarico
Tahar Lamri
Gabriella Kuruvilla
Kossi A Komla-Ebri
Aliou Diop
Coordina: Milton Fernàndez

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