Pare sia nata agli inizi del ‘900 negli Stati Uniti, ma una pratica ancora non definita come tale credo sia esistita pressappoco da quando l’uomo prese coscienza della sua capacità di creare dei mondi inesistenti, e di abitare quelli da altri creati.
Si potrebbe dire che è dall’inizio della Storia (che non a caso inizia con la scoperta di qualcosa chiamata scrittura, e dell’uso che da allora ne fece per conservare la memoria e dare testimonianza della sua esistenza) che guarigione e creazione letteraria camminano di pari passo. Le testimonianze sono infinite.
Ma credo (ne sono convinto) che arrivi ancor da più lontano questo rapporto, legato non soltanto alla scrittura – tale e quale la conosciamo oggi – ma all’oralità, alla comunicazione (o alla necessità di), al bisogno impellente di capire e di essere capiti, implicito in ciascuno di noi.
Nel Fedro, Platone traccia una precisa linea di demarcazione tra Medico degli schiavi e Medico degli uomini liberi. Il primo è quello che espleta semplicemente un servizio sociale (più a beneficio del proprietario che del paziente stesso), e non si degna di parlare col malato né di scambiare la minima informazione. Il suo scopo è quello di massimizzare i guadagni, perciò prescrive dei farmaci o delle cure senza dover dare la minima spiegazione sugli effetti o sulle cause.
Il Medico degli uomini liberi è invece colui che, prima di trattarlo, cerca di trovare una causa al male. Interroga il paziente, i suoi amici, i suoi familiari, e non prescrive alcun farmaco senza prima averne spiegato gli effetti all’ammalato.
Il Medico degli schiavi è, per Platone, assimilabile al sofista: non è un vero medico così come il sofista non è un vero filosofo.
Il Medico degli uomini liberi, invece, è uno e l’altro, poiché possiede non solo la competenza scientifica ma anche l’arte della dialettica, che fa della medicina un sapere specifico; umano, reale, complessivo. Quel sapere che, secondo Ippocrate, rende Isòtheos il medico che lo possiede (Il medico che si fa filosofo diventa pari a un dio). Un sapere che per arrivare alla conoscenza del corpo, e quindi alla sua guarigione, non può trascurare la via della conoscenza dell’insieme.
Conoscenza che presuppone non soltanto responsabilità generica del medico, in quanto scienziato, nei confronti della verità, ma anche un concreto impegno, come essere umano, davanti ad altri esseri umani, altrettanto concreti, che si affidano alle sue cure.
Un mattino, molto tempo dopo (secolo più secolo meno), un giovane Freud era sul punto di arrendersi al fallimento dei trattamenti tradizionali nel campo dell’isteria, consistenti allora in passaggi di corrente elettrica sul corpo, bagni freddi, ipnosi, ecc. ecc.
Fu allora che, vedendolo afflitto, la sua paziente, Emmy Von N., si permise di consigliargli di lasciar perdere, di sedersi accanto a lei e di ascoltare tutto quello che lei stava da tempo desiderando raccontargli.
Freud accettò il consiglio (anche se sistemò la sua sedia in una posizione a lui più congeniale), e si mise ad ascoltare.
Per il resto dei suoi giorni.
Dal punto di vista del paziente, Letterapia prende spunto da alcune sperimentazioni, diventate man mano sistematiche, dopo la seconda guerra mondiale.
I libri, la lettura –personale o collettiva- l’analisi di situazioni, personaggi, intrecci, cominciarono allora a integrare le cure nei lunghi periodi di convalescenza dei soldati feriti, e si arrivò alla conclusione che quei pazienti che leggevano si riprendevano più velocemente.
“(…) stimolando l’immaginazione il cervello produce più endorfine e aiuta le cellule di difesa. Ogni volta che, arrivando alla fine di un libro ci sentiamo meglio di quando lo abbiamo iniziato, stiamo sperimentando, anche se non ci rendiamo conto, il potere guaritore della letteratura nell’anima” P. A.
Letterapia è anche il proseguo e l’ampliamento di un progetto che stiamo portando avanti, da circa un anno e mezzo, in alcuni istituti geriatrici della città di Milano.
A partire da una esperienza realizzata in Nicaragua da parte del poeta Ernesto Cardenal, con i suoi Talleres di Poesìa, in un istituto pediatrico-oncologico, dal quale sono nati, oltre ad alcuni libri meravigliosi, degli studi fondamentali sui benefici della creatività letteraria nello stato d’animo dei pazienti, e la conseguente produzione di anticorpi.
Abbiamo toccato con mano qualcosa che fino ad allora soltanto potevamo immaginare. La prevalenza della memoria emotiva su quella razionale in anziani malati di Alzheimer (o di solitudine, di sradicamento, di silenzio, di mancanza di stimoli). Il richiamo di sembianze, parole, suoni, odori, sensazioni attraverso immagini suggerite da quella memoria che spesso non trattiene il nome dei propri figli ma che, se stimolata, si lascia andare senza remore, arrivando a lambire spazi sconosciuti spesso ai propri familiari.
Letterapia è, quindi, un progetto che nasce e cresce con l’intenzione di incoraggiare – attraverso la lettura, l’ascolto, l’analisi di testi, lo studio della psicologia dei personaggi e degli intrecci letterari – una conoscenza più approfondita nell’arcipelago della malattia, la complessità della professione medica e il disagio spesso non ascoltato (non raccontato) del paziente. Cercando di favorire il dialogo (con gli altri, con se stessi) in tutti quelli che in un momento della loro vita vedono ridotta la possibilità di azione, fisica e mentale, cercando di far sì che la loro realtà possa espandersi molto al di là dello spazio in cui si sentono costretti a rimanere.
Il suo obbiettivo non è questionare i risultati incontrovertibili della tecno-medicina attuale, ma affiancarla, attraverso il dialogo, l’empatia e la comprensione narrativa di ciascuno dei pazienti.
L’intero rapporto diventa, in questo modo (se il medico è in grado di ascoltare, se il paziente viene stimolato a raccontare) una storia – causa ed effetto di quella clinica – che comincia a costruirsi nel dialogo tra una visita e l’altra, tra un esame e l’altro, tra le sensazioni e gli stati d’animo che da essi derivano, tanto in ambito personale quanto in quello familiare.
Una narrazione, più che una semplice compilazione seriale di dati e risultati alla quale spesso è stata ridotta la medicina muta.
In ambito letterario, La morte di Ivan Ilich, ad esempio, offre la possibilità di approfondire l’esperienza intima di un malato terminale che, illuminato dal male che lo sta uccidendo, cambia radicalmente il suo modo di intendere il lavoro, il rapporto con la sua famiglia e i suoi affetti, il mondo, la sua intera esistenza.
La malattia come rivelazione dell’autentico senso della vita che l’ingannevole salute nascondeva, ci suggerisce Tolstoj. Forse qualcosa che avviene carsicamente in molti malati, ma ci voleva il genio del maestro russo per descriverla in tutta la sua poetica crudeltà.
I poeti, gli scrittori, gli artisti sono quelli che non hanno – se sono veri – il timore di entrare in quelle zone che ai comuni mortali spesso impauriscono, e di tornare indietro con delle domande (alle volte persino con delle risposte) nuove di zecca.
Lo fecero, insieme a Tolstoj -in modo magistrale- (ma la lista sarebbe infinita): Camus, Thomas Mann , Bernhard, Rabelais, Proust, Cervantes, Flaubert… ecc.
Con Letterapia ci proponiamo di intervenire in tutti quei campi del “disagio”, dove riteniamo che la nostra presenza possa rappresentare un apporto positivo, attraverso la presenza di “Volontari letterari”.
L’efficacia del loro contributo, di fondamentale importanza, dipenderà dalla loro formazione, oltre che da un’innata capacità di lettura e di interpretazione della materia letteraria, motivo per il quale proporremo delle “Giornate di formazione in Letterapia”, avvalendoci della collaborazioni di accademici, psicologi, personale medico, creativi, drammaturghi e raccontastorie.
Un punto di partenza, poco più, con la speranza di poter contribuire a rendere più umane, affrontabili e persino formative situazioni molto spesso vissute come un semplice scotto da pagare all’esistenza.
Milton Fernández – Festival della Letteratura di Milano